RICORDO DI MARIO ROSSELLO:
UN ALBERO LIGURE CRESCE A MILANO.
Silvio Riolfo Marengo

Nel mondo dell’arte, spesso gonfio di invidia e attraversato da rivalità profonde, Mario costituiva un’eccezione. In quarant’anni di amicizia - nata in riva al Sansobbia, nell’età d’oro di Albisola, e poi consolidata a Milano - non gli avevo mai sentito esprimere un giudizio negativo su un collega. Era, anzi, sensibile, prodigo di consigli e aperto all’incontro soprattutto con i giovani che esortava a persistere nei loro intenti quanto più il cammino sembrava farsi impervio e avaro di soddisfazioni. Incoraggiandoli riviveva i suoi stessi esordi quando poco più che ventenne si era inoltrato con ferma determinazione sulla strada dell’arte e a contatto con Fabbri, Sassu, Jorn, Lam e Fontana, i maestri dell’avanguardia internazionale convenuti ad Albisola per far ceramica, aveva ben presto abbandonato il paesaggismo di maniera cercando di innovarsi senza tradire le proprie origini.
I suoi primi quadri importanti, ispirati al porto di Savona, mettevano in scena grovigli di attrezzature meccaniche rese dinamiche utilizzando tecniche di ascendenze dada e futuriste: gru, benne, argani scomposti e ricomposti in forme geometriche contaminate da misteriose presenze antropomorfe, che preludevano alla riflessione, lucida e impietosa, sui falsi miti della società consumistica e tecnologica degli anni Sessanta con i cicli sui Consigli di amministrazione e gli Uomini robotizzati: segmentate parvenze prive di identità cui fanno pendant desolate visioni di città industriali, folle solitarie, lacerti di paesaggi cementificati, ai quali (ed è la sua scoperta, decisiva anche per l’evolversi dello stile) Rossello comincia ad opporre l’immagine salvifica degli alberi, elevati a simbolo assoluto di una purezza ambientale originaria riconquistata, con lucidità e passione, entro e nonostante il sempre più imperioso affermarsi di quella che il poeta Adriano Guerrini aveva denunciato come la crudele e indifferente ”età di ferro”. è, in definitiva, una speranza di redenzione quella che Rossello da allora in poi ha inseguito per più di vent’anni: dipinta sulla tela, impressa nel manto delle ceramiche, esaltata attraverso il candore del marmo e la forza incorruttibile del bronzo. Ed a questo grande tema, ancora oggi, dodici anni dopo la sua morte, è saldamente ancorata la posizione di tutto rilievo che lo contraddistingue nel panorama dell’arte contemporanea.
Abile organizzatore, rigoroso ed attento, Mario onorava              puntualmente gli impegni senza mai sgarrare di un giorno, vorrei dire di un’ora, quando doveva consegnare un’opera o presenziare a un avvenimento. E questa inappuntabile serietà professionale aveva conservato fino all’ultimo, quando continuava a dipingere sopportando in silenzio e con grande dignità il male che lo aveva aggredito. Lo ricordo salire su un aereo di linea diretto in Francia (forse non era consentito, ma in qualche modo riuscì a ottenere una deroga) con la bombola ad ossigeno dalla quale non poteva più separarsi. L’occasione era fornita dalla sua ultima grande personale, allestita dal 4 giugno al 6 novembre 2000 (Mario sarebbe scomparso appena un mese dopo) nel castello di Chenonceau, il più suggestivo della Loira. Come sempre, si era presentato a questo appuntamento che sanciva la sua consacrazione internazionale fedele alla sperimentazione e al “mestiere”, abbinando alle sollecitazioni della fantasia, il rigore e la pazienza proprie di quella precisione artigiana, che rendeva ogni sua opera perfetta, senza sbavature o cedimenti. Costruiva da solo, utilizzando diversi materiali, i modelli delle sue sculture e aveva ideato una macchina per svolgere e riavvolgere, affinché scorresse davanti agli occhi degli spettatori, un suo quadro giustamente famoso, quel Chilometro di strada tra Albisola e Savona, che è uno dei più grandi, forse il più grande quadro mai dipinto su tela: lungo ben 35 metri e alto più di due, frutto di un anno di lavoro, portato a termine anche di notte, confessava, che venne esposto per la prima volta a Venezia nel 1976, nella personale di Palazzo Grassi e successivamente al Museo d’Arte Moderna di Parigi.

La professionalità, dunque, ma anche l’umanità di Mario, il suo senso dell’amicizia e l’amore per la famiglia. Spesso con me magnificava le capacità manageriali di suo fratello, giunto a ricoprire importanti cariche aziendali, ma il suo pensiero era costantemente rivolto alla moglie e alle due figlie per le quali stravedeva. Voleva lasciare un segno nel mondo dell’arte, essere “grande” e importante, diceva, soprattutto per loro.
Di tante vicende vissute insieme, ne ricordo due, milanesi. Mario si era trasferito nel capoluogo lombardo con la famiglia nel 1961. Io vi ero approdato nei primi anni Settanta, insieme a Gina Lagorio per lavorare alla Garzanti, come direttore delle “grandi opere” (le celebri “garzantine“ e l’Enciclopedia Europea”). La casa editrice aveva sede in un bel palazzo, ricostruito da Gio Ponti sulle macerie di un’antica villa del ‘500 distrutta dai bombardamenti nell’agosto del 1943, quando ne era ancora proprietario il marchese De Capitani d’Arzago. L’edificio, dal quale Cesare Correnti, nel 1848, dettò il manifesto delle “Cinque Giornate”, aveva due ingressi: uno in via Senato, dove un tempo scorreva il Naviglio della Martesana, voluto nel 1457 da Francesco Sforza e perfezionato, con una serie di “chiuse“, da Leonardo nel 1482. Ogni palazzo che si affacciava sul Naviglio possedeva un imbarcadero, e, a piedi, si poteva passare di giardino in giardino, seguendo la via percorsa da Renzo, giunto a Milano per sfuggire ai “bravi” di don Rodrigo, fino a raggiungere il Duomo. Questa grande via d’acqua, nella quale transitò per cinque secoli il traffico commerciale cittadino, venne interrata nel 1929 - 1930, proprio quando podestà di Milano era il marchese d’Arzago e la sua scomparsa segnò anche il destino della parallela via della Spiga - sulla quale dava l’altro ingresso della casa editrice - rimasta per secoli, con le sue botteghe artigianali, falegnami, carradori, fornai, la via di servizio delle dimore patrizie affacciate sul Naviglio. L’ingresso della Garzanti era al numero 30, Mario aveva affittato, dirimpetto, uno studio al numero 15. Il bar- tabacchi che si apriva al suo fianco, a metà mattina, diventava il luogo convenuto per la pausa caffè, per gustare un aperitivo o semplicemente per scambiare due chiacchiere, tenerci aggiornati sui rispettivi lavori, parlare degli amici. Poi, un giorno, all’improvviso, il locale chiuse i battenti: “Mi danno - si giustificò il proprietario - tanti soldi, per andarmene”. Era la prima avvisaglia della trasformazione che ben presto avrebbe portato via della Spiga a far parte, con la parallela via Montenapoleone, del grande e un po’ algido quadrilatero della moda diventato uno dei maggiori centri dello shopping a livello mondiale.
Anche Mario fu costretto a cambiare studio. Si trasferì, non molto lontano, in via Pasubio, ma ancora oggi in via Spiga, dove io sono rimasto anche dopo la chiusura della casa editrice per occuparmi di alcune attività benefiche promesse da Livio Garzanti, il suo ricordo è tenuto in vita. Lorenzo, un ciociaro giunto non so come a Milano (”l’angelo di via della Spiga” lo ha definito sul “Corriere” Lina Sotis) da anni tiene in perfetto ordine la strada di cui conosce vita, morte e miracoli; sorveglia le vetrine, raccoglie i mozziconi di sigarette, innaffia le fiorire di prima mattina (la via non si risveglia che alle dieci). Ed è lui a ricordarmi Mario ogni volta che ci incontriamo. Mi porta davanti al numero 15 e si china a indicare la sigla “RO” che ha inciso a colpi di scalpello su una beola; non ha più avuto il coraggio di completare il nome, temendo di violare chissà quale regola sull’uso del suolo pubblico, ma queste due lettere sono sufficienti a indicare la sua conoscenza con uno dei più importanti artisti milanesi, anzi, a suo parere, il più grande: “Pensa - mi dice, passando dal lei al tu - a Natale gli arrivavano casse di champagne e ostriche dalla Francia, a volte le custodivo per lui, entravo nel suo studio, mi faceva vedere i suoi quadri, era un “grande” e così ho voluto ricordarlo”. è stato ancora Lorenzo a dirmi, pochi giorni fa, che su via della Spiga si sta preparando un sito, con la sua storia, i suoi negozi, i suoi protagonisti: sarà visto in tutto il mondo e anche Mario, così verrà ricordato.

Di Mario ho scritto più volte, ma mi è particolarmente cara la segnalazione sul “Sole - 24 Ore“ della sua prima mostra di scultura, tenuta a Milano nei mesi di marzo e aprile 1985. Era stato, ricordo, l’articolo che aveva segnato l’inizio della mia collaborazione al quotidiano proprio quando aveva preso corpo l’idea del supplemento culturale diretto da Ludovico Besozzi. Sua madre era ligure, e vista la condizione di liguri inurbati a Milano, mia e di Rossello, anche il titolo dell’articolo (“Un albero ligure cresce a Milano”) non poteva che ispirarsi alla comune terra d’origine. Besozzi mi aveva dato libertà di scrivere quanto e come volevo e io, sull’ali dell’entusiasmo e dell’inesperienza, consegnai alla redazione di via Lomazzo, un pezzo di 125 righe, che, per le caratteristiche dell’inserto, rappresentava un’enormità. Difatti, il giorno dopo Besozzi mi telefonò che bisognava ridurre l’articolo a una misura più consona, precisò “al massimo 25 righe”. Inutile dire che fui costretto a riscrivere il pezzo, con un taglio nuovo. Mario ne fu comunque soddisfatto. Il Sole era il quotidiano economico più importante d’Europa e costituiva un titolo di merito il solo fatto di essere citato. Per questo vorrei riproporre quanto scrivevo allora, dopo tanti anni:
“Ogni artista ha la sua ossessione … e nella testa di Mario Rossello c’è un albero”, scrive Carlo Castellaneta presentando la personale dell’artista ligure aperta, fino al 29 aprile, alla galleria di Ada Zunino, in via Turati. La “Zunino” è una delle poche, forse l’unica galleria in Italia, ad occuparsi esclusivamente di scultura: per questo Rossello, che è noto soprattutto come pittore, ma ha coltivato da sempre anche la statuaria, l’ha scelta come sede naturale della sua prima mostra dedicata esclusivamente alla scultura. Ventiquattro opere - una in marmo, il progetto dell’ “Albero fiore”, una gigantesca scultura alta più di sei metri realizzata per il Comune di Milano che verrà inaugurata il mese prossimo nei giardini di via Pallavicino - le altre in bronzo: e sono, naturalmente, tutte sculture di alberi.

Nate dallo stesso trasporto dei quadri, queste sculture ne sono, in un certo senso, un prolungamento emotivo perché completano la tensione espansiva che regge dall’interno la pittura di Rossello. Di fronte alle sue tele si prova un imprevisto senso di coinvolgimento, dovuto a un immediato e quasi fisico rapporto con gli alberi. Un albero, si sa, cresce continuamente e, fermato sulla tela, sembra non accontentarsi dello spazio che occupa, è sempre in bilico tra implosione ed esplosione, reclama un’altra concatenazione di alberi, un volume, un dinamismo che la tela comprime e la scultura esalta. Da questa impellente necessità nasce il Rossello scultore. Non so se le sculture degli alberi abbiano cercato lui o lui sia andato a cercarle, ma certo esse vivono di vita propria, come simbolo, ma anche come peso e materia concreta, come alberi specifici, isolati o in gruppo o inseriti in un paesaggio.

Ve n’è uno, di questi paesaggi che è frutto di una memoria storica: una di quelle colline coltivate a terrazze che hanno segnato generazioni di fatiche contadine, con le loro “fasce” ricavate in pochi metri di terra e gli alberi piantati accanto alle pietre di confine, e sono oggi ridotte a sterpaie polverizzate ed incolte, simili a un mare d’erba che il vento solleva ed incolla, ritmicamente, ai sentieri. Rossello ha trasformato questo paesaggio familiare alla sua memoria di ligure inurbato a Milano in un fotogramma compatto e in movimento al tempo stesso, rappresentato nello splendido “paesaggio ventoso” che costituisce uno dei pezzi più nuovi e interessanti della mostra”.
Fin qui l’articolo apparso sul “Sole”. Non ho conservato purtroppo l’originale, ma ricordo di aver osservato - e così vorrei chiudere la mia testimonianza - che l’ossessione naturalistica di Mario affondava le proprie radici nel “grande nemus” savonese. Il termine sembrerebbe un’ invenzione poetica, se non si trattasse del nome scientifico che designa l’ininterrotta cortina di verde che si svolge alle spalle di Savona e ne fa, ancora oggi, la provincia più boscosa d’Italia, in proporzione alla superficie.
Anche per questo la “natura” di Rossello è affatto particolare. Risorta nella mente e nel cuore, è perfettamente riconoscibile, senza essere mai esclusivamente veristica. Una natura, appunto, “parallela” come lui stesso la definiva, un “paesaggio mentale” proveniente da angoli remoti della memoria, imbrigliati o inseguiti da linee di forza che costruiscono intorno ai suoi alberi reticoli di spazi geometrici, esatti, perpendicolari. Così, mentre da un lato emerge il richiamo prospettico ispirato alle regole auree della pittura rinascimentale, dall’altro scorre tra i rami il sottile, modernissimo e sempre imprevedibile rapporto dialettico tra l’uomo, la natura e il suo destino.

...“Rossello ha messo al mondo una quantità di creature di sua esclusiva invenzione le quali popolano i suoi quadri. Sono inquieti, allarmanti e allarmati senza però il crollo della totale disperazione. I personaggi di Rossello si sentono soli anche in mezzo alla folla, cercano di comunicare ma lastre di cristallo per lo più invisibili li separano gli uni dagli altri. Spazi psicologici, lui li chiama, zone di spazio-tempo.”

Nel mondo alienato di Mario Rossello,
da “Corriere d’informazione” del 23 giugno 1967,
Dino Buzzati

...“Nei quadri di Rossello sta come sospeso un dialogo che sottintende una vibrazione cifrata, come fu tra gli atomi dei filosofi greci. È un tentativo di fermare il tempo servendosi della sua componente osiamo dire algebrica, calcolo di meno e di più quantità che si cancellano e si creano... Così Mario Rossello sembra guardare dal di fuori... un luogo nel quale ci muoviamo senza accorgerci, che non è più il mondo presente ma uno spazio dove il simbolismo e l’informale sono diventati amori illeciti, peccati di estetismo e manierismo.”

Mario Rossello, catalogo della mostra,
Galleria Chironi 88, settembre 1967,
Salvatore Quasimodo

Hanno scritto sul lavoro di Mario Rossello

Luigi Albertini - Guido Ballo
Renato Barilli - Riccardo Barletta
Carmine Benincasa - Germano Beringheli
Carlo Bertelli - Liana Bortolon
Rossana Bossaglia - Gianfranco Bruno
Dino Buzzati - Maurizio Calvesi
Italo Calvino - Luciano Caprile
Luciano Caramel - Luigi Carluccio
Flavio Caroli - Giorgia Cassini
Carlo Castellaneta - Luigi Cavallo
Nino Cavassa - Osiris Chierico
Sergio Dangelo - Remi D Cnodder
Raffaele De Grada - Mario De Micheli
Giorgio Di Genova - Jean Dypréau
Enzo Fabiani - Carlo Franza
Melisa Garzonio - Gérard Gassiot Talabot
Armando Ginesi - Silvano Godani
Sebastiano Grasso - Flaminio Gualdoni
Giorgio Kaisserlian - Théodore Koenig
Gina Lagorio - Davide Lajolo
Alberto Martini - Giorgio Mascherpa
Jacques Meuris - Dario Micacchi
Milena Milani - Benedetto Mosca
Nicoletta Pallini - Franco Passoni
Mario Perazzi - Simona Poggi
Domenico Porzio - Ivo Prandin
Salvatore Quasimodo - Pierre Restany
Silvio Riolfo Marengo - Franco Russoli
Alberico Sala - Roberto Sanesi
Oscar Signorini - Pier Angelo Soldini
Franco Solmi - Erich Steingraber
Emilio Tadini - Franco Tiglio
Stelio Tomei - Tommaso Trini
Antonello Trombadori - Marco Valsecchi
Jean Pierre Van Thiegem - Miklos Varga
Giuseppe Venosta - Marisa Vescovo
Giancarlo Vigorelli - Lorenzo Vincenti